E’ nelle sale italiane da qualche giorno il film di Sorrentino presentato a Cannes: Youth, il primo dopo la marcia trionfale del precedente: La Grande Bellezza.

La cifra stilistica dell’autore è anche qui ben visibile: anzitutto il mostrare, non raccontare, un atteggiamento molto anglosassone (show, don’t tell) verso la narrazione, e Sorrentino mostra anche qui i suoi tipici  salti di tono, l’avvicendarsi di pseudo realtà e visionarietà, del giorno e della notte della coscienza, e i suoi tableau vivant  di immagini meravigliose .

Il regista ha raccontato che i suoi genitori sono morti quando lui era appena adolescente, e si è chiesto che cosa i suoi figli (che hanno adesso all’incirca l’età che aveva lui allora), avrebbero ricordato dei  giorni trascorsi  insieme: e ha scritto questo film per liberarsene. Infatti, lo fa dire anche a Michel Caine nel film, che si risponde: ”Molto poco”.

Il film è molto triste nella sua apparente levità, e ci sono tutte le ossessioni del regista – il tempo che fugge, il senso dell’arte, la delicatezza, la drammaticità e la ridicolaggine della vita, la forza dell’amore e dell’amicizia –  insomma, le ossessioni che sono anche le nostre, in una struttura al tempo stesso satura e aperta per ognuno.

Ci si chiede perché però il mostrare l’immaginario di emozioni e sentimenti del  regista  debba essere sempre collocato in luoghi superlativi ed esclusivi, dalle immagini luccicanti, con persone che sono sempre solo attori, registi, o direttori d’orchestra o miss Universo, come in questo film, o  scrittori,   giornalisti e redditieri  in la”Grande Bellezza, o attori in  This must be the place: lontani i tempi in cui l’ambiguità e la crudeltà si mostravano a Latina, con “miss Agro Pontino”, in L’amico di famiglia, in cui l’amico era un usuraio…

La giovinezza del titolo è una condizione esistenziale, che viene addirittura ipotizzata dal medico all’ottantenne direttore d’orchestra come sua aspettativa finale, ma che in tutto il film è però lontana, è parte solo di corpi perfetti e imprendibili, irraggiungibili, diversi ed estranei nella loro nudità.

L’attenzione è invece tutta sulla vecchiaia, sui corpi vecchi e stanchi, a volte osceni nella loro debordante bruttezza e grassezza, come l’attore che impersona un mostruoso Maradona, (un’altra delle icone dl regista, che lo citò tra le sue fonti d’ispirazione all’Oscar) ma che qui è disperatamente grottesco, più simile a un triste cetaceo che a un essere umano.

Un film certamente da vedere, in cui i dialoghi sono a volte di saggezza memorabile, altre di banalità sconcertante; in cui  le inquadrature sono come al solito bellissime, esageratamente perfette, in cui le emozioni che suggerisce sono “tutto quello che abbiamo”, come ricordava del resto anche Toni Pagoda,  il personaggio picaro di due bei libri di Sorrentino –  scrittore,  molto diverso dal Sorrentino – regista.