Amina ha un volto triangolare, gli zigomi pronunciati, gli occhi azzurrissimi e un fisico snello. Bella, decisamente. Addirittura bellissima, se la guardi sul suo profilo Facebook. Sembra una modella. In realtà fa la guida turistica, accompagnando i visitatori di Sarajevo lungo il Tour dell’Assedio.
“Avevo cinque anni quando è scoppiata la guerra”, racconta. “Vivevo in un paesino tra le montagne. Con mia madre siamo dovute scappare. Lei cercava di farmi vivere una vita quanto più normale possibile. Ma la mattina, quando mi salutava per mandarmi a scuola, diceva ‘chissà se stasera ti rivedo’”.
Sarajevo è una città bellissima e struggente, come solo una città dilaniata da anni di guerra e di assedio può essere. La sua vocazione è sempre stata quella della confusione culturale, una pacifica mescolanza di etnie, religioni, pensieri, che a un tratto, nel 1994, si è spezzata.
“Io sono musulmana”, continua Amina, che mi parla strizzata nei suoi jeans attillati e ‘chiodo’ di pelle nera che lascia in vista un bel decolleté. “Anche se non metto il velo e bevo vino, esco con i miei amici e faccio tardi la sera. Non per questo mi considero una cattiva musulmana. Il mio cuore è puro. Non è questo che conta?”
Amina aveva un nome cristiano, ma se lo è cambiato perché a scuola i ragazzi non la lasciavano in pace. E mentre ci accompagna tra i cimiteri, racconta di quando, durante l’assedio, non sapevi mai se una volta uscito di casa saresti tornato. ‘I cecchini erano dappertutto e noi bambini avevamo imparato a camminare per strada nascondendoci tra un’auto e l’altra per evitare le pallottole”.

A Sarajevo ci sono tantissimi cimiteri. Su tutte le tombe la stessa data di morte: quella degli anni dell’assedio.
Già, i cecchini sparavano alla gente in coda per il pane, a quelli che andavano a trovare i familiari, a quelli che uscivano per una commissione. Così, senza motivo apparente, se non decimare i ‘nemici’ musulmani.
Amina era bambina, non capiva perché a casa non ci fosse da mangiare, ma si adattava. “Mangiavo fiori”, dice. “Vivevo in campagna e non c’era altro”.
Le pallottole e le bombe. “Questa è la rosa di Sarajevo” e indica il segno rosso in cui una vernice pietosa ricopre quelle che un tempo erano tracce di sangue nei punti in cui le granate facevano centro. “Ce ne sono tante sulle strade della città e sono diventate il nostro simbolo. Con la pioggia luccicano ancora di più, come se il sangue fosse ancora fresco”.
Quasi quattro anni di assedio, 12.000 morti, l’eccidio di Srebreniza in cui vennero uccisi 8000 uomini e bambini attirati con l’inganno, raccontato nel museo dedicato alla strage, un luogo di dolore dal quale non si riesce a uscire perché si vuole sapere di più e ancora di più. “E’ considerato uno dei musei più belli d’Europa”, continua Amina. “Ne siamo molto fieri”.
E le moschee, le sinagoghe, le chiese cristiane, i minareti dai quali al tramonto parte la voce del muezzin, le cupole d’oro, le botteghe di paccottiglia, le donne velate che passeggiano ridendo di fianco a quelle vestite all’occidentale. Sarajevo all’apparenza ha ritrovato il suo spirito felicemente mescolato e confuso, ma è solo un’apparenza, appunto. In realtà tra le cose nelle quali si inciampa continuamente ci sono i cimiteri, tantissimi e grandi, disseminati di tombe in cui l’anno di nascita varia di decenni ma quello di morte è sempre quello, 1994, a volte 1995. Decine e decine di tombe con nomi musulmani e lo stesso anno (a volte lo stesso giorno) di morte.
Non c’è odio o rancore ma piuttosto consapevolezza nel Tour dell’Assedio, che consiglio di fare a chi vuole capire Sarajevo. Si attraversa la città e si entra nella Repubblica di Serbia, una frontiera immaginaria indicata da una bandiera, dove i serbi di Bosnia hanno scelto di vivere dopo la pace di Dayton del novembre 1995, si sale in montagna e si arriva nella zona olimpica, dove le strutture sciistiche delle olimpiadi invernali del 1982 giacciono abbandonate e preda dei writers. Sono entrata in quello che resta dell’hotel un tempo più elegante di Sarajevo, poi assediato dai serbi di Bosnia che ne avevano fatto il loro quartier generale. Poco lontano, in uno spiazzo d’erba delimitato dal nastro adesivo delle forse di polizia, un cartello dice che è in corso lo scavo di una fossa comune recentemente scoperta.
Ho passeggiato lungo la pista di bob, ora coperta di graffiti e usata dai ragazzi per fare le gare in bicicletta. “Da questo punto sparavano i cecchini, protetti dal bordo della pista”, spiega Amina. Fino a poco tempo fa c’erano ancora i buchi dei kalashnikov, ma il comune li ha fatti chiudere. Forse ha pensato che fosse troppo doloroso vederli”.
Non sono state chiuse, invece, le decine di buchi che trafiggono alcune case del centro, come un vaiolo devastante su un volto un tempo bello. “Qui sono state uccise le prime due ragazze. Facciamo iniziare la guerra da questo episodio”, spiega Amina mentre passiamo su un ponte e proprio davanti a noi c’è un edificio che sembra un groviera abbandonato da un topo in fuga.
Qui tutti portano la loro ferita, senza troppo esporla. Il nostro driver annuisce mentre Amina parla. E scopriamo che suo padre è stato ferito alla testa durante l’assedio, non si è mai ripreso ed è morto pochi anni dopo in conseguenza della ferita.
Nella capitale di un Paese diviso in tre (in Bosnia Erzegovina ci sono tre presidenti, uno serbo, uno croato, uno musulmano) il ponte sul quale venne assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando, e che poi dette il via alla Prima Guerra Mondiale, passa in secondo piano rispetto ai cimeli della storia più recente, come la biblioteca messa a fuoco dai serbi e nella quale sono andati distrutti migliaia di libri, i palazzi feriti, i tanti cimiteri.
Il fiume Miljaka che la attraversa e le montagne che le fanno da corona la fanno sembrare una città dolce, ma sotto le ferite bruciano ancora. Ti guardi intorno e pensi che tutti quelli che incontri per strada e che hanno più di 20 anni devono aver visto le atrocità della guerra. E quanti non si possono più incontrare? Quanti sono caduti attraversati da una pallottola, lacerati da una granata, mentre andavano a fare la spesa, mentre passeggiavano per strada?