Dopo ‘I fiori di Kirkuk’ Fariborz Kamkari, regista iraniano di origine curda, mette in scena una rappresentazione della difficile convivenza fra etnie e culture diverse nel nostro Paese, in un film intitolato ‘Pitza e Datteri’.

Il luogo è la città che più di ogni altra è stata l’incrocio fra Oriente e Occidente, una Venezia lontana dagli stereotipi rappresentativi, in cui splendidi colori e luci illuminano la fatiscenza degli ambienti interni di palazzi patrizi e fast food etnici, piccole calli e terrazze sconosciute.

La meravigliosa colonna sonora, firmata dall’Orchestra di Piazza Vittorio, è il fondamentale legame tra gli avvenimenti, così evocativa con i suoi inconfondibili ritmi in cui la contaminazione Oriente-Occidente fa da ulteriore collante in una situazione in cui l’ italiano è un esperanto fra stranieri; splendida anche la fotografia, che mostra la bellezza della città, senza essere estetizzante.

Il film è altalenante: il racconto è lento, il ritmo comico si alterna con quello drammatico non sempre fondendovisi, ma la narrazione è molto delicata e affronta temi scomodi, come la condizione delle donne nel patriarcato islamico con ironia e leggerezza, così come l’impoverimento in Italia.

La storia dell’(unico) italiano del film, Vendramin, mostra uno smarrimento della propria identità che è molto interessante vedere sullo schermo, con un’affiliazione al credo musulmano avvenuta più per emarginazione e protesta contro “il sistema capitalistico corrotto, le banche e le agenzie di riscossione” che per convinzione religiosa, di un uomo che  ha perso i propri punti di riferimento insieme con le proprie radici, ed esige “rispetto per tutti, senza umiliazioni”.