Può sembrare strano andare in Giappone per vedere qualcosa di diverso dai templi, i quartieri delle gheisha e i grattacieli. Ma l‘isola di Naoshima non ha niente di tutto questo. Situata nel mare di Seto ha avuto un passato (e in parte un presente, anche se in formato ridotto) industriale. Pesca e lavorazione del pesce sono stati il motivo di sostentamento per i suoi 3000 abitanti. D’estate la parte sud era meta di villeggianti, perché sarà anche che i giapponesi e il sole che abbronza non vanno tanto d’accordo, ma le spiagge sono belle e pulite, il mare tranquillo. Eppure non bastava all’economia locale.
Chikatsugu Miyake, sindaco dell’isola per 39 anni pensò nel 1985 di farne un polo di attrazione, una specie di hub culturale del Giappone. L’incontro con Tetsuhiko Fukutake, presidente di Benesse Holding, fece il resto. Lui pensava ai bambini e voleva che potessero venire nell’isola a respirare aria buona e fare iniezioni di creatività. Ma morì prima che il progetto potesse vedere la luce. Ci pensò il suo successore, Soichiro Fukutake, a creare il primo campus, in cui giovani di tutto il mondo potessero venire a immergersi nella natura dell’isola. Nel 1995 venne costruito il primo edificio, che divenne poi il museo Benesse House. In fondo cosa c’è di meglio di un’isola scarsamente popolata per riempirla di opere d’arte di grande formato sparse qui e là come parmigiano sulla pasta?
A Naoshima oggi si va per l’arte, solo per l’arte. Ci si arriva prendendo un bullet train da Tokyo fino a Okinawa, poi un trenino che tanto somiglia ai nostri regionali (solo molto più pulito) fino a Uno e da lì si prende un ferry o una speedboat che in 10 minuti ti porta sull’isola.
Il porto è così piccolo che ti sta in una mano. Sembra più grande la prima zucca che incontri, quella rossa di Yayoi Kusama. Un autobus di linea ti porta dove dormirai. Ma non è che ci sia tanta scelta. Qualche piccola guest house nel villaggio di Kadoya oppure la scelta più in tema con l’esplorazione artistica, una stanza a Benesse House, che gestisce anche i cinque musei. Le stanze più belle (e più care) sono quelle del Museum, estrosa costruzione ellittica, solo sei camere tondeggianti con le pareti decorate da vari artisti.
Meno care quelle di Benesse Park o di Benesse Terrace, sulla spiaggia, davanti alla seconda grande zucca di Yayoi Kusama, l’opera più instagrammata dell’isola.
Sistema i bagagli e inizia l’esplorazione dei cinque musei e dei sei art projects. I musei sono tutti opera di Tadao Ando, l’archistar giapponese che ha realizzato la Punta della Dogana a Venezia e che ha lavorato in modo grandioso per non deturpare in alcun modo la natura dell’isola pur usando i suoi materiali, cemento e vetro.
Il museo più piccolo è quello dedicato a Lee Ufam, nato in Corea nel 1936 e residente in Giappone. Sono solo sei opere in uno spazio tutto per lui e lo si visita in un quarto d’ora. Il secondo museo è il Chichu Museum, interamente scavato sotto terra, con cinque tagli nella collina da cui penetra la luce della superficie. Entri togliendoti le scarpe e indossando le ciabattine che ti vengono offerte – e la cui suola viene spazzolata dopo ogni uso – perché cammini su una nuvola bianca che non può e non deve essere imbrattata. Stai entrando in uno spazio mistico, sotto terra, in un semi-buio affascinante. Le opere sono poche, ma sistemate in modo da far sì che ti venga voglia di sederti e ammirarle per dei quarti d’ora. Soprattutto i dipinti di Monet, così lontano da Parigi in cui ti aspetteresti di vederlo, così imbevuti di luce soffusa che viene dall’alto.
Il Museum vero e proprio è invece uno spazio molto più grande, con opere di Jackson Pollok, Bruce Nauman, Cy Twombly e molti altri. Resta aperto dalla mattina presto fino alle 23 e visto che sull’isola non c’è molto altro da fare a parte contemplare, una visita notturna è quanto di più piacevole ci sia.
Il resto dell’arte è concentrato nel villaggio di Kadoya, dove c’è anche qualche piccolo caffè oltre alle guest houses. Qui sono concentrati sei progetti realizzati da altrettanti artisti, come Shinro Ohtake, che ha preso la ex-casa di un dentista e l’ha ricoperta, dentro e fuori, di materiali di risulta.
Ultimo step, il Tadao Ando Museum, con i disegni e i modellini di alcuni dei progetti dell’architetto. Non c’è Punta della Dogana e non c’è nemmeno la casa di Alessandro Benetton e la sede di Fabrica a Treviso. C’è invece la stupefacente Chiesa della Luce a Ibaraki City (Osaka), che Ando ha realizzato con un budget tirato all’osso, praticamente una scatola di cemento con un taglio a forma di croce, una struttura così semplice eppure così potente, l’essenza stessa della religiosità, il soffio di Dio che riempie lo spazio nudo.