Per il terzo anno consecutivo il Leone d’Oro è stato assegnato a una regista donna: Laura Poitras (l’autrice di Citizenfour su Edward Snowden che vinse l’Oscar come miglior documentario nel 2015) in quest’ultima edizione 2022, a Audrey Diwan con L’Évenément nella scorsa del 2021 e nel 2020 a Nomadland di Chloé Zhao.
Tre registe, tre donne, tre voci indipendenti del panorama contemporaneo, pronte a farsi carico di temi sociali, politici e umani ancora scomodi e difficili. Ma è davvero così? O forse sono le stesse tematiche volutamente “impattanti” a cavalcare l’onda di un’epoca, a rendersi meritevoli di una vittoria facile, quasi già scritta?
Quest’ultimo festival ha visto trionfare ancor più le donne: da Catherine Deneuve, Leone d’Oro alla carriera, alla regista Alice Diop, Leone d’Argento per il suo parzialmente autobiografico Saint Omer, pellicola difficile non solo per il tema, ma per il modo scelto di raccontarlo, fino, ovviamente, al Leone d’Oro di “All the Beauty and the Bloodshed” della Poitras, viaggio iconico nell’America underground sulle note dei Velvet Underground. Affrontando lotte e tematiche sociali, le due registe si ergono paladine di un impegno politico che poco ha a che fare col cinema, ma che le santifica in quanto “donne impegnate” in un’arte mai fine a se stessa.
In questo festival che ha voluto cimentarsi nella rappresentazione di uno dei topoi culturali e antropologici più assoluti, la maternità, con una sfilata di pellicole stentate, dalle “buone intenzioni”, la Diop va oltre, narrandone la più atroce trasgressione, quel tabù indicibile rappresentato dall’infanticidio perpetrato nei confronti della propria creatura. Scava nell’abisso dell’animo per sondarne un’oscurità inspiegabile alle leggi umane, forse riferibile solo a leggi ataviche, non scritte, così oscure da essere state bandite per sempre da questo mondo. Qualcosa che può venir spiegato solo attraverso una sublimazione del reale, ricorrendo a quella stregoneria di cui ancora si parla nei libri di storia, nei racconti di antiche tribù, di riti e maledizioni arcaiche nascostamente ancora professati, a cui l’imputata, Laurence, si appiglia, ancora avviluppata al retaggio culturale della sua madrepatria. Sorta di Medea contemporanea, della tragedia greca e pasoliniana, si perde il pathos narrativo, la forza drammatica e la carica distruttiva di una donna divisa, spezzata, resa feroce da un amore troppo grande che reclama vendetta. La Medea della Diop non appare donna: Laurence rimane imperturbabile, dura, tagliente e monolitica, i lineamenti fermi e gli occhi fissi, la postura rigida, le poche parole essenziali e indifferenti. Muovendosi tra cronaca, mito e racconto autobiografico (il film è ispirato a un’esperienza di vita della regista e a un fatto di cronaca avvenuto nel 2013 in Francia), la Diop si ferma nella pura cronaca giudiziaria, incapace, forse per paura di sporgersi troppo nell’abisso, di immergersi nello psicologico e nell’antropologico. Il film si prolunga in un rigoroso realismo persino oltre il documentaristico, in una ricerca di stile che ne fa un vero e proprio courtroom drama dai lunghissimi tempi narrativi e formalmente verboso, privo di intimismo. Non vi è dolore o amore, non vi è madre, raffigurata solo per cavilli legali e intellettualismi pretenziosi, così come non vi è esperimento o ispirazione, alla fine solo un prodotto arido che non raggiunge i suoi intenti (Tilda Swinton si è addormentata in sala). Risiede forse qui il limite del film di Alice Diop, nella convinta adesione a un’idea così volutamente cerebrale da non riuscire a sfuggire a una generale rigidità espressiva.
Per quali meriti si è, dunque, guadagnato il Leone d’Argento? Per l’argomento scomodo, un tabù, quanto mai attuale in un panorama politico che intende di fatto negare ogni diritto all’aborto? O per un’abilità narrativa, una carica emotiva e artistica di cui in realtà sembra essere privo? Nel premiare per ben due volte (Diop e Poitras) due pellicole dalla forte natura documentaristica, Venezia sembra dimenticare la sua natura di festival cinematografico volto a riconoscere talenti e geni artistici, e farsi invece portavoce di propaganda politici e sociali.
Allo stesso modo All the Beauty and the Bloodshed, vero e proprio diario fotografico o “mostra” delle tante foto, pellicole, diapositive e scatti degli emarginati di quella società americana anni ‘70 ormai riconosciuta da tempo grazie al lavoro della fotografa Nina Goldin, a cui il documentario è dedicato, rimane puro impegno sociale svuotato di autentica creatività. Al centro un attivismo che manca di coinvolgere, rapire lo spettatore in quella rivendicazione di diritti umani di cui non si coglie né la portata né lo sforzo. Quella che è la battaglia dell’associazione P.A.I.N., portata avanti da anni contro la famiglia Sackler, una delle più ricche degli USA e nel mondo, responsabile di aver inondato il mercato col farmaco di ossicodone, un oppioide prescritto dai medici americani come semplice antidolorifico, ma che ha portato alla dipendenza e alla morte decine o forse centinaia di migliaia di persone, rimane pura testimonianza televisiva, reportage giornalistico da seconda serata. A catturare l’attenzione è il filo rosso e intimista della vita dell’artista, i suoi traumi infantili (due genitori inadatti e una sorella morta suicida), la ricerca di amore, le suggestioni e le crepe di un’esistenza a tratti assurda che ne hanno fatto un’iconoclasta al limite dell’autodistruzione, in una contaminazione di sangue e bellezza che ha reso la sua arte così esteticamente apprezzabile ed emotivamente disturbante. Unica nota struggente di un reportage che si mantiene piuttosto scolastico, compilativo e televisivo, che trae la sua poca forza dagli scatti vibranti della Goldin, in un’alternanza di sussulti e dolori che pur non riescono a salvare un prodotto solo didascalico, lontano dall’essere cinema e dal suscitare vere emozioni.
Anna Chiari
@annachiari___