Campagna rumena. C’è chi crede ancora nei miracoli e chi che “siamo fatti di ossa, intestino e grasso”, e che non verrà proprio nessuno a salvarci. Sulla superficie di una bacinella d’acqua è il riflesso di una ragazza che piange, avvolta da un velo nero che non nasconde labbra carnose. Può essere acqua santa, o acqua e basta. Non diversa dalle lacrime che rispecchia, solo meno salata quindi un po’ meno umana, se si pensa all’essere umano come a una soluzione salina.
Così Bogdan George Apetri, tra i cori ortodossi, apre Miracol, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia78, opera profondamente laica e spirituale che costantemente disattende le aspettative del pubblico, prendendo gradualmente la piega di una crime fiction letteralmente mistica e terribilmente terrena. La storia di Cristina, diciannovenne che ha appena intrapreso il cammino per diventare monaca, prende vita e prende morte sempre all’esterno del monastero, abbandonato nella scena iniziale per recarsi in ospedale ad abortire e dando inizio ad una vicenda che si consuma tra macchine, prati e ospedali. E’ in un campo che si spoglia del nero e torna “civile” con vestiti da ragazzina, è un taxi a portarla in ospedale e a cullare i suoi dubbi con la musica di un canale radio rumeno, ed è in ospedale che decide di tenere il bambino, come scoprirà il pubblico molto più avanti.
Il tragitto di ritorno sarà molto diverso dall’andata, sempre accompagnato dalla musica tradizionale della radio che questa volta ispirerà ben altra decisione, in un tassista che intravede nel sorriso della giovane ora più spensierata una via per la propria personale soddisfazione che porterà alla fine di due vite.
Nello stesso bosco di prima verrà iniziata al dolore della brutalità umana. Stuprata e picchiata quasi a morte con un sasso, le ultime ore della sua vita scorreranno in una camera d’ospedale e le macchine e i prati ora saranno il terreno in cui altri combatteranno la sua lotta.
Un ispettore di polizia, particolarmente affezionato al caso e che, a fronte di lei che si scopre ancora viva nonostante le aspettative e che rifiuta di identificare il suo aggressore, decide di ricercare una giustizia che non è amore per la legge ma amore per Cristina e il loro figlio che forse ancora può salvarsi. Colpi di scena e tocchi di irrealtà sono il modo con cui il regista espande il suo discorso, partendo da un indagine sulla violenza di genere (in un festival che quest’anno ha dato spazio a numerosissime protagoniste femminili, spesso in relazione alla maternità e a relativi pregiudizi) per spaziare infine su orizzonti più ampi. A fronte di soprusi inimmaginabili, ci si domanda infatti se esista ancora spazio non solo per la giustizia, chimera ormai superata, ma per la salvezza e per credere in qualcosa di più.
Di nuovo una canzone rumena alla radio accompagna la rabbia del detective, che davanti alla volante parcheggiata nella scena del crimine sogna di uccidere chi ha infine ucciso la sua amante (è una telefonata a dichiarare morta Cristine) ma che poi decide di lasciare perdere, perché in fondo tutto è già perduto, tutto disfatto e non esistono miracoli, “non verrà nessuno a tirarci fuori di qui”, né tantomeno a riportare in vita Cristina.
La vediamo infatti nella scena finale, sdraiata nel lettino, in una sala autopsie paradossalmente poco asettica in cui un medico si appresta a tagliarle la pancia. La radio è accesa, sintonizzata sulla stessa frequenza della scena precedente e, mentre scorrono le note di una musica antica, dagli occhi chiusi e tumefatti della morta spunta una lacrima. Che forse il vero miracolo in grado di salvarci sia l’arte?