Gabriel Garcia Marquez se n’è andato, per sempre.

Negli ultimi anni era molto malato, forse di Alzheimer; chissà se davvero si era perso fra le dune della memoria e della mente, proprio lui che ci aveva portati in quella dimensione lontana, eppure conosciuta, che ha la coscienza a metà col sogno.
E chissà se, nel momento in cui stava per scomparire davvero, si è ricordato, come “il colonnello Aureliano Buendìa davanti al plotone d’esecuzione, di quel remoto pomeriggio in cui suo padre l’aveva condotto a conoscere il ghiaccio”: le prime righe di “Cent’anni di solitudine” uno degli incipit più belli che siano mai stati scritti.

Scrittore universale e di fama equivalente, uno dei rari casi in cui il Nobel ha corrisposto a un successo davvero planetario; giornalista e reporter, critico letterario, sostenitore inossidabile della rivoluzione castrista e di Castro stesso, è sempre stato generoso di sé.
Anche noi vogliamo ricordarlo; anche noi vogliamo rendere qui il giusto omaggio a questo scrittore a cui tanto dobbiamo, e ci piace farlo ritornando con la mente e con la memoria alle sue donne, le donne che hanno popolato il suo mondo e che sono le donne del mondo intero: giovanissime come Remedios, la bimba di 9 anni di cui il futuro colonnello Aureliano Buendía s’infatua perdutamente, e vecchissime come Ursula che continuerà a vivere perchè non sa di essere morta, l’indomita matriarca che attraversa la vita di tutti con una forza d’animo invincibile (“…finché Dio mi dà vita, non mancheranno mai i soldi in questa casa di pazzi”).

Come Amaranta, che per un amore non corrisposto rovina la propria vita e la vita di quelli che l’avvicinano, intristita e autolesionista, chiusa nella propria sofferenza eppure creativa e generosa, si ustionerà una mano per punirsi per sempre ma nel giorno in cui lei sa che morirà si preoccuperà di portare con sé lettere e doni per i morti degli abitanti del villaggio.  Come Petra Cotes, ” il cui amore aveva la virtù di esacerbare la natura, e a cui bastava passeggiare per le sue terre perché ogni animale soccombesse alla peste irrimediabile della prolificazione”. Come Fermina Daza, “…che si vestiva in casa per dipingere come se andasse a una festa” , che dapprima si pentì di “non avere il coraggio di altre che avevano vuotato il vaso da notte sulla testa del pretendente”, ma che poi si sposò per sempre, e che faceva tardi ogni sera prima di andare a letto perchè doveva mettere in ordine il mondo.

Come la Mamá Grande, sovrana assoluta del regno di Macondo, “che visse in funzione di dominio per 92 anni e morì in odore di santità un martedì dello scorso settembre, e ai funerali intervenne anche il Sommo Pontefice” e come Maria Alejandrina “seduta davanti a un piatto babilonico di cose da mangiare, perché mangiare smodatamente era sempre stata la sua unica maniera di piangere”.

Garcia Marquez ha sempre raccontato che tutto quello che ha scritto lo doveva allo splendido caos dei racconti della nonna Tranquilina: storie di donne, storie di memoria, e della fantasia del ricordo, di magia e di realtà, come la vita di tutte le donne. E se è vero, come Marquez diceva, che tutti hanno una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta, lui è riuscito a rendere davvero immortale l’intreccio femminile di tutto ciò: un viluppo di leggenda, storia, cronaca e sentimento in un paesaggio fantasioso e magico, colorato e avventuroso, in cui ricordo e fantasia sono il fondamento di un eterno racconto, il racconto di tutte noi.