Lo scrittore Amoz Oz, a 15 anni, litigò con il padre e il resto della famiglia, rigidamente di destra, e se ne andò a vivere nel kibbutz Hulda, dove rimase per trent’anni. Sigourney Weaver, Simon Le Bon e perfino Boris Johnson, da giovani, hanno lavato piatti e rifatto letti in qualche kibbutz, affascinati, come molti ragazzi in fase di gap year, da un’esperienza di vita libera, comunitaria e un po’ hippie.
Tutti sono uguali, nel kibbutz, tutti lavorano, dividono quello che c’è – dal cibo ai soldi – danno il loro contributo, fanno la loro parte. Non ci sono differenze di sesso, età, censo, cultura.
Detta così sembra un mondo ideale, e tale deve essere sembrato ai pionieri che, nel 1910, decisero di dare il via a questa forma di vita così peculiarmente israeliana. Frotte di ebrei erano in arrivo da ogni parte dell’Europa, del Nord Africa e del Mediorient, a reclamare la loro porzione di ‘terra promessa’ e bisognava trovare un lavoro per tutti, del cibo per tutti. A Degania, a sud del Lago Tiberiade, zona molto calda, desertica, dove le condizioni di vita non erano certo ottimali, a qualcuno venne in mente di riunire gli ebrei in arrivo per coltivare la terra; bisognava ingegnarsi a fare qualcosa per sopravvivere e per trovare cibo e lavoro per tutte quelle persone e agli ebrei non è mai mancato lo spirito d’iniziativa.
L’idea dei pionieri fu quella di riscattare le terre abbandonate e farle fruttare attraverso l’agricoltura. Vennero così creati di primi kibbutzim (che è il plulare corretto di kibbutz), delle comuni autogestite, costruiti in punti strategici in cui potessero (anche) servire da difesa.
Nel 1961 c’erano 80mila persone che sceglievano di vivere questa forma di vita comunitaria. Oggi sono 180mila, ma la popolazione di Israele è salita e la percentuale di chie sceglie di vivere in kibbutz è solo il 2%.
L’agricoltura, quindi, è stata la prima occupazione all’interno dei kibbutzim. E se oggi Israele ha una struttura di canali per l’irrigazione all’avenguardia, se esporta arance in tutto il mondo, se è riuscita a mantenere integro il paesaggio naturale lo si deve proprio ai kibbutzim. Ancora oggi il 40% dell’agricoltura di Israele viene da questi luoghi che, adeguandosi ai tempi, oggi in certi casi producono esclusivamente verdure o frutta biologica.
C’è stata perfino una forma temporanea di kibbutz in Italia, a Bacoli (NA), precisamente, nel 1946, dove un gruppo di ebrei, in attesa di poter raggiungere la terra promessa ha creato il kibbutz Mechor Baruch.
E dato che Israele è diventata la start-up nation per eccellenza, all’agricoltura, praticata con metodi innovativi esportati in tutto il mondo (viene da un kibbutz il drip irrigation system, il metodo di irrigazione a goccia), e dato che la vita in comunità ben si adatta ai giovani, i kibbutzim sono spesso sedi di start-up di ogni titpo e genere.
Forse la vita nel kibbutz non è più quel sogno socialista, spartano e idealista dei padri fondatori, ma gli somiglia tantissimo. “Tutti lavorano, all’interno o all’esterno del kibbutz” spiega l’addetto all’accoglienza del kibbutz Ketura, a 50 km da Eilat, la città più a sud di Israele. “Quello che si guadagna con il proprio lavoro viene versato in un conto corrente comune. Nessuno possiede niente. Ci sono alcune automobili a disposizione di tutti, si prenotano con una app (e ti pareva, siamo pur sempre nel regno della tecnologia, ndr) e si utilizzano quando necessario”.
Si vive nel proprio appartamento, per il quale non si paga un affitto, e si ottiene ogni mese del pocket money con cui comprare qualcosa, un gelato, una coca-cola. Tutto il testo, cibo, vestiti, lavanderia, viene fornito dal kibbutz. Nessuno possiede un auto, ma ci sono diverse macchine a disposizione della comunità. Chi ne ha bisogno si prenota, la usa e la restituisce. Come si fa per car sharing, solo che nel kibbutz questo metodo era stato inventato molto prima che venissero fuori le varie app.
“Molti kibbutzim accolgono turisti per uno o più giorni, e per loro vengono organizzate escursioni, gite in bicicletta e altro. Ma sarebbe un errore prenderli per hotel. È fondamentale abbracciarne la filosofia, mescolarsi con gli abitanti, parlare con loro. Io organizzo tutte le mattine jun giro del kibbutz e faccio sì che i miei ospiti possano incontrare gli abitanti, parlare con loro, vedere da vicino come si vive in comunità”.
Un’esperienza di sicuro diversa, a metà tra il viaggio e il vivere da locale insieme ai locali.