Torna alla Mostra del Cinema di Venezia dopo il Leone d’Argento del 2009 per Donne Senza Uomini l’iraniana Shirin Neshat, video-artist, fotografa, regista, essere umano ipnotizzante ed eclettico e, in questo casuale settembre 2021 che segue la trista estate di Kabul, presenza terribilmente bruciante.
L’arte incontra la denuncia potenziandola e la denuncia si lascia avvolgere dall’arte senza fagocitarla nell’opera di lei che cerca continuamente nuove vie espressive che si compenetrino e che esplorino la complessità della sua terra e l’ambiguità dell’identità femminile nel contesto della cultura islamica, in particolare in quella iraniana post-rivoluzionaria, senza ridurla a un cliché. Si ricorda la celebre serie fotografica Women of Allah, cui lavorò dal 1993 al 1997 e che le valse il divieto di tornare in Iran, di cui particolarmente incisivo fu Unveiling (1993), il cui fine era portare alla luce ciò che si trova dietro l’ormai simbolico e discussissimo ornamento tradizionale femminile islamico.
Ed è di nuovo sulla scia di uno svelamento, questa volta culturalmente più esteso, che si inserisce “Land of Dreams”, presentato nella sezione Orizzonti Extra e diretto in collaborazione con Shoja Azari. Lo svelamento è quello della parte più intima di ognuno di noi: i nostri sogni, ovvero le nostre paure.
Simin Jann Hakak è infatti funzionaria dell’ufficio del censimento statunitense e il suo compito è quello di farsi rivelare i sogni dei cittadini, “per la loro protezione”. Curioso che questa collezionista di materiali del tutto particolari, che fotografa coloro che si raccontano per poi travestirsi e filmare la sua personale mise en scène del suddetto racconto (quasi sempre femminile), abbia come secondo nome proprio Jann, “anima”. Il sogno, la nostra essenza, il contenitore dei “demoni di tutta l’umanità”, di quel lato oscuro che ciascuno di noi cerca di reprimere e controllare, della nostra verità di esseri umani spaventati che diventano pericolosi quando si guardano dentro. Quando ascoltano l’inquietudine della loro anima.
Per questo lo stato vuole “mettere mano sulle loro paure”, per questo deve monitorarne le visioni notturne.
Ma quello distopico non è l’unico filone, in questo dramma surreale che nasce dallo sguardo di tre stranieri sull’America (alla sceneggiatura partecipa anche Jean-Claude Carrière) e che accosta continuamente opposti: onirico e realtà, futuro e passato, ambienti asettici e terra polverosa che sporca le highways e che contamina la nitidezza di quel rosso, bianco e nero che ritornano costantemente nel film e sono in fondo il modo con cui si potrebbe riassumere l’emotività e l’esperienza umana nel mondo se dovessimo usare il codice dei colori. È una distopia il cui altro volto viene fuori con lentezza ma sempre più chiaramente, ricollegandosi a quella che è in vero quasi un’ossessione della regista, nata in Iran ma da esso presto separata per seguire la direzione dell’America: l’esilio. E’ l’artista stessa in un’intervista a ricordare il detto “Puoi togliere un iraniano dall’Iran, ma non l’Iran da un iraniano”.
Il cuore del film viene allora svelato mano a mano: lo sradicamento dalla casa, la ricerca delle origini e, in senso lato e concreto, la ricerca del padre. Quest’ultimo apre il film sotto forma di sogno accecante e lo richiude sotto forma di fotografia, al centro di quella spirale di immagini che sono ormai l’unica forma di resistenza all’oblio (non casuale la scelta della protagonista di immortalare solo chi le racconta i sogni , quindi chi lei ritiene degno di essere fermato, trattenuto dal flusso inesorabile delle cose, reso appunto immortale) e che Simin appoggia su quel suolo sterile e luminoso che fa da contrasto e che è finalmente terra di tutti e terra di nessuno. Fotografie che ricollegano la storia personale della dreamcatcher, impressa in quei ritratti intimisti della sua infanzia iraniana lontana, con la storia collettiva del paese, impressa in quei ritratti probabilmente dei rivoluzionari giustiziati, come il padre molti decenni prima, presi di nascosto dalla colonia iraniana costituita da chi rimane del nucleo di coloro che cercarono di combattere lo stato islamico un trentennio prima, e che rimasero stanziati per tutto questo tempo laddove la protagonista è inviata in “missione speciale”. Una missione che diventa in qualche modo vero motore della narrazione.
Un film che forse più che “terra dei sogni” dovrebbe intitolarsi la “terra degli usignoli”, creature che, recita un personaggio in farsi, lasciano il nido di notte solo se distrutto o smarrito e diventano preda dei gufi, come la domestica messicana che ha smesso ormai di sognare e vive di umiliazioni nell’estraneità di una casa non sua e che non a caso è una dei protagonisti del sogno-realtà iniziale di Simin.
Creature, gli usignoli, il cui nome è forse più pregnante nella lingua inglese, nightingale, che si potrebbe scindere in night-in-gale: letteralmente “notte nella tempesta”.
Di nuovo questa artista nomade, con un piede nell’Occidente e un pezzo di cuore nel Medio-Oriente, torna a far riflettere non solo su una cultura specifica, la sua, e sul controllo dello stato sul singolo e sulla collettività, ma in generale sul senso più profondo di ognuno, su ciò che ci rende noi stessi, che è la nostra origine tanto quanto il nostro cammino, ma che è soprattutto è due cose: la nostra nostalgia e i nostri tormenti.
E immortalata sarà allora per sempre la vera essenza dei tanti “usignoli” delle fotografie finali, anche perché, ricordando proprio Ode to a Nightingale di Keats: Thou was not born for death, immortal Bird! – No hungry generations tread thee down (“tu non fosti nato per morire, uccello immortale. Che nessuna generazione affamata ti calpesti”). Calpestamento che, purtroppo, avviene di continuo.
Bianca Montanaro