Questo è il racconto di un viaggio, di un itinerario che parte da Paesi dal nome magico – la Siria, l’Iraq, l’antica Mesopotamia – e la mente subito torna ad ‘Alì Babà e i Quaranta Ladroni’, alla Aleppo dai mille profumi de ‘Le Mille e una notte’ – passa da Budapest dovrebbe terminare a Vienna, la dolce e austera capitale austriaca, che pure dell’Ungheria fu a lungo la capitale.

Però non è un viaggio glamour, in cui l’unico timore per chi lo intraprende (anche per una viaggiatrice solitaria che decida di essere più avventurosa e spericolata del solito), può essere solo il meteo avverso, o le scarpe inadatte, al massimo qualche noioso e inatteso sciopero dei trasporti.

Questo è un viaggio disperato.

E’ intrapreso da chi deve scegliere se morire, farsi seviziare, violentare, annientare nella propria terra o, forse, salvarsi arrivando in una terra europea, di cui poco o nulla si sa, forse morendo nel tragitto: di sete e fame, di asfissia, di annegamento.
E’ un esodo drammatico e feroce: tutti abbiamo visto in questo periodo, su tutti i mezzi di comunicazione, le immagini di questa tragedia apocalittica; abbiamo saputo di governanti che di fronte a immagini (ah, Mc Luhan! è proprio vero che “il medium è il messaggio”) di cadaverini nella sabbia hanno ricordato di essere padri; abbiamo appreso che popoli dell’Est Europa a lungo oppressi e a lungo emigrati ‘nell’altra Europa’ (polacchi, ungheresi, slovacchi, cechi, bulgari) rifiutano adesso qualunque accoglienza e qualunque onere l’Europa gli chieda di assumersi ‘come gli altri’.

Questo viaggio che vogliamo riportare qui però ci pare diverso, è una marcia.

Le foto sembrano le immagini di un ‘Quarto Stato‘ moderno, con passeggini in primo piano e bandiere europee, un ‘Quarto Stato’, arrivato chissà da dove e chissà come; con donne, uomini e bimbi, laceri e confusi, ma decisi ad attraversare quei 250 km che separano Budapest da Vienna, e dividono loro da un mondo diverso, che non conoscono, ma in cui certo possono essere, se non ancora del tutto liberi, ancora vivi.
I binari sono chiusi e i treni fermati dal potere ottuso e becero? E i migranti usano qualcosa che non possono togliergli: la forza, lenta e inesorabile, delle gambe.

La marcia che vediamo e raccontiamo ha un impatto simbolico fortissimo: non siamo alla maratona di New York e nemmeno al Camino de Santiago. Sarà massacrante, selettiva, feroce anch’essa; persino ironica nel suo snodarsi su autostrade percorse tante volte comodamente da molti di noi su confortevoli e veloci berline.
E proprio per questo – irrompendo nella quotidianità e ordinarietà di un autostrada europea – non può non farci, finalmente, interrogare sulla nostra acquiescenza, la nostra indifferenza, il nostro guardare da un’altra parte.