“Gebo e l’ombra” è l’ultimo film di Manoel De Oliveira presentato all’ultima Mostra di Venezia fuori concorso, e uscito ieri nelle sale italiane. E’ un piccolo prodigio, un film che esercita una fascinazione totale, per molti motivi: il regista, il più importante della nazione lusitana, ha raggiunto ormai i 106 anni e dirige con la levità di una vera farfalla un cast di attori vecchi e vecchissimi: una allegra e svampita Jeanne Moreau, incantatrice dalla penna rossa sul cappello vezzoso; un’ispida e tormentosa Claudia Cardinale, stretta in uno scialle grigio; un austero Michael Lonsdale, vero Padre sacrificato, ma anche i giovani Leonor Silveira e Luis Cintra.
Il film, girato in un mese, è un autentico capolavoro che tratteggia con sensibilità, leggerezza e spirito di osservazione la crisi diffusa, la povertà progressiva, il sacrificio, il guadagno facile, il male, l’amore e la protezione familiare.
Soprattutto i personaggi sono trattati e raccontati come se si muovessero dentro un acquario: un’illusione elegante resa dalle luci fioche, e dalla scena che si svolge sempre in un’unica stanza della Parigi del XIX secolo, e raccontano pian piano una storia come se fossero già al di là degli avvenimenti, dei giudizi, della vita stessa, ombre che pure rimangono pienamente dentro il racconto.
Il solo figlio di Gebo, il ribelle João, sempre evocato e infine presente, è la tendenza al male che c’è nell’animo umano, ma è anche l’elemento di rivoluzione che, pur aggiungendo entropia, dà una svolta a una situazione di stagnazione e di totale acquiescenza, mentre Gebo è l’eterno Padre a cui tocca il peso del sacrificio: è lui a mentire ripetutamente, pur di conservare l’ottimismo evolutivo e nascondere la miseria della realtà.
Un film che è un gioiello speciale, che riesce a parlarci di morale, di vita, e di cinema, in modo raro e prezioso.