La 77esima edizione del Festival di Venezia è stata diversa, quasi impavida, trattandosi del primo festival tenutosi dal vivo pur nell’inquietante clima di pandemia. Un’edizione senza i grandi nomi d’Oltreoceano, di solito presenti, ora impossibilitati ovviamente a prenderne parte, che ha tuttavia puntato su grandi registi del cinema europeo, maestri di un cinema talvolta un po’ oscuro e spesso impegnato. Un tema, una sensibilità particolare, una lotta, quella al femminile, delle donne, sembrano aver prevalso. A uscire vincitore infatti un film scritto, prodotto e montato interamente da una donna, la regista cinese Chloé Zhao, e interpretato dalla bravissima Frances McDormand, che porta in scena la solitudine della wasteland Americana, mentre ad aggiudicarsi la Coppa Volpi l’inglese Vanessa Kirby, per la sua interpretazione di una madre distrutta dopo la morte da parto del proprio bambino. Drammi tutti al femminile insomma. Questa edizione del festival è stata dunque costellata di figure di donne, interiormente forti e intellettualmente superiori, dotate di una sensibilità moderna in opposizione al contesto oppressivo e retrogrado in cui si ritrovano a vivere. Donne impegnate a dare spazio ai loro sentimenti, diventandone spesso vittime. Questo il caso di film quali The World to Come di Mona Fastvold, in cui la passione tra due donne sole nel gelido west causa la tragica fine di una di loro, o di Love After Love, della regista (Leone alla carriera) Ann Hui, parabola discendente di una ragazza di provincia che da ingenua e sprovveduta diviene prostituta d’alto rango pur di mantenere l’uomo che ama. Film su donne indipendenti, anticonformiste, che lottano contro sistemi oppressivi, per lo più contro meschini e deboli uomini che tentano di schiacciarle, di piegarle o di usarle. Sono opere che rappresentano relazioni tossiche, di abuso in termini di violenza fisica, di degradazione, di oppressione e non soltanto. Qui sta la modernità di questa edizione del festival: non è più la violenza fisica a dominare lo schermo, ma quella psicologica, più sottile e insinuante, alla fine ancor più logorante.

Tilda Swinton Almodovar

Due le opere che emergono per l’attualità del tema e il femminismo arrabbiato di cui si fanno portavoce: Miss Marx di Susanna Nicchiarelli e The Human Voice di Pedro Almodóvar. Al centro di entrambe due protagoniste forti, sole ad affrontare la desolazione in cui si è consumata la loro vita per amore di un uomo. E dove la Nicchiarelli ritrae il fallimento di una intera esistenza destinata a terminare in tragedia, Almodóvar offre alla sua protagonista una possibilità di riscatto, di emancipazione. Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, è la visione di un uomo, celebre per i suoi racconti tutti al femminile, a spiccare per la sua natura innovativa e femminista. Come afferma Emma Watson con il suo movimento HeforShe, il vero femminismo, la vera uguaglianza dei generi, dovrebbe essere insita nella mente dell’uomo, più che in quella della donna, e fondarsi sulla collaborazione dei due sessi, non sulla loro opposizione.

Al contrario, la Nicchiarelli costruisce una narrazione basata sull’archetipico degli opposti uomo-donna, costruendo un’eroina quasi punk e un antieroe stereotipato e per niente approfondito, senza riuscire a trasmettere la reale impotenza della protagonista, il cui gesto finale appare forzato e ingiustificato. La vita dell’ultima figlia di Marx offre alla regista romana lo spunto per riflettere su diversi aspetti dell’emancipazione femminile, denunciando una forma di oppressione intima e quotidiana, fondata su ruoli immutabili, stabiliti da una società e una cultura fortemente patriarcali impregnate di un insidioso maschilismo. Eppure, la Nicchiarelli non ha convinto nessuno con il suo Miss Marx: gli uomini si sono sentiti immeritatamente attaccati o si sono per lo più annoiati, le donne sono rimaste confuse da una narrazione priva di vigore e raffazzonata. L’ultima figlia di Marx, Eleanor, detta Tussy, è una donna fortemente moderna, una coraggiosa oratrice e una scrittrice infaticabile, un’intellettuale raffinata dalla forte sensibilità e empatia che sceglie una vita anticonformista per quell’epoca, ossia convivere con il suo amato, l’attivista politico Edward Aveling, fuori dai vincoli matrimoniali. Si fa portavoce di una lotta femminista e, in quella che lei stessa definisce una tirannia degli uomini, si staglia per il suo spirito caritatevole, per il suo sguardo illuminato, pieno di comprensione per tutto ciò che è umano e, quindi, per sua implicita natura, fallace. Eppure Eleanor Marx, nonostante la sua emancipazione e lucidità morale, non riesce ad affrancarsi da una oppressione culturale e affettiva, da una stagnante dipendenza sentimentale, rimanendo prigioniera di una relazione tossica e dannosa che la logora dall’interno, facendone la vittima di un maschilismo immobile e quasi immutabile, allora come ai nostri giorni. Il tragico gesto finale dovrebbe essere una scelta liberatoria, un affrancarsi dall’oppressione più o meno diretta dalle figure maschili che hanno condizionato la sua intera esistenza, il padre e il compagno, così come preannunciato nell’adattamento di Casa di Bambola Aggiustata scritto dallo stesso Aveling. Eppure non vi è nulla di liberatorio o romantico nel gesto di Eleanor, solo il segno inevitabile di una sconfitta che non viene approfondita, ma solo drammaticamente riportata in evidente contraddizione con l’energia intellettuale e la lucida consapevolezza della protagonista. Come la giovane Miss Marx, donna indipendente, spirito infaticabile dai forti ideali, arrivi a suicidarsi per un uomo meschino e scialbo, rimane cosa oscura, quasi incomprensibile allo spettatore cui non viene data la possibilità di seguirne i moti dell’animo, il dramma più intimo. L’introspezione e la rappresentazione dei sentimenti sono messe da parte, sostituite da monologhi didascalici della protagonista che parla in macchina e si rivolge direttamente allo spettatore denunciando quell’oppressione di genere di cui la sua stessa vita è emblema. Diversamente, la Tilda Swinton di The Human Voice di Almodóvar, ennesima rivisitazione del monologo teatrale scritto da Cocteau nel 1930, incarna, con gli ampi pantaloni di velluto e i completi dalla foggia maschile, la forza quasi androgina della donna moderna. Il testo di Cocteau, già reso celebre dalla straziante Anna Magnani prima di essere lasciata da Rossellini per “l’Americana” Ingrid Bergman, non ha perso la sua forza drammatica, in quasi un secolo, ma ha mantenuto quel pathos emotivo che lo contraddistingue. Il dramma è crepuscolare, sulla fine di un amore, l’ultimo amore possibile per una donna ormai giunta all’ultima stagione della vita. In questo risiede il potere dell’opera: la donna è costretta a sacrificare una passione ancora ardente, senza età, obbligata com’è ad abbandonare lui e, con lui, tutto quello che è stata e avrebbe potuto essere. C’è qualcosa di fortemente annichilente nella solitudine irreversibile che inghiotte la protagonista. Tuttavia, a differenza delle tante dive che l’hanno preceduta nel dare voce a tale dramma, la Swinton di Almodóvar non è succube del suo destino. È una donna che, pur disperata al punto da ingoiare dodici pillole, compra un’ascia per fare a pezzi il completo preferito dell’amato, una donna che, in quello che appare come un ultimo e disperato bisogno di attenzione, ma che si rivela un atto catartico di rivalsa, brucia dalle fondamenta il loro appartamento, teatro del loro amore. Almodóvar, poi, va oltre, aggiunge qualcosa, un elemento di distacco, quasi ironico, al dramma di questa donna che ha perso tutto, distruggendo la quarta parete e mostrando fisicamente il backstage, il teatro di posa in cui è riprodotta la casa di lei, la realtà fisica che si cela dietro la finzione di scena. Il regista sfrutta lo spazio, indugiando sulla finzione del set costruito, esasperando l’idea di alienazione e straniamento della protagonista, dell’isolamento in cui vive, racchiusa con i suoi abiti e accessori costosi, come in una casa di bambola. Ci mostra l’assenza, la solitudine e l’oscurità che la circondano: oltre i confini del suo appartamento, oltre la sua terrazza, non vi è uno skyline di luce e prospettive, ma solo la barriera di una parete scura. D’altra parte la scelta di Almodóvar ci spinge a riflettere sul rapporto tra realtà e finzione, mettendo in evidenza la natura teatrale del monologo quasi a rivelare l’artificiosità nel dramma rappresentato. Non è un caso, infatti, che il momento di affrancamento della Swinton coincida con il suo dare fuoco al teatro di posa e a tutto quello che contiene, alla casa in cui viveva rinchiusa come una bambola, per aprire poi la porta verso una luce abbagliante, così da poter uscire, senza guardarsi indietro, da quel teatrino. Tutto questo a suggerire che certi melodrammi dovrebbero appartenere soltanto al mondo della finzione, dell’arte appunto, e non avere spazio nella vita vera.

Anna Chiari