Sono anni di femminismo, alle volte perfino esacerbato, che apre a dibattiti, inchieste, scontri politici, un femminismo facile anche, democratico, accessibile a tutti e pronto all’uso. Un mantra, quasi. Nella società del politically correct e della cancel culture, ci si appiglia più che mai a frasi facili, “giuste”, da ripetere con gli altri, oltre che con se stessi, per rassicurarsi di stare al posto giusto, dal lato giusto della storia. Eppure, la realtà non è mai stata così diversa, nella cronaca nera di cui leggiamo quotidianamente sui giornali, come nelle infinite manifestazioni di sessismo, oppressione culturale, nella violenza verbale (vero e proprio gaslighting), non solo da parte di uomini, ma ancor più da parte di donne nei confronti di donne stesse, di cui rivendicano il ruolo di portavoce. In un paese arretrato e ormai anacronistico, che, come Benjamin Button, sembra andare all’indietro anziché evolvere, l’Italia si assesta tuttora come una delle società tra le più sessiste nel panorama contemporaneo, con la forte incidenza di femminicidi e violenze sessuali e una cultura patriarcale, sempre maschilista, talmente radicata nell’imporre ancora valori del secolo scorso a generazioni ormai in caduta libera.

Il cinema, ovviamente, riflette la società che lo genera e la selezione portata avanti dalla mostra del cinema di Venezia, ne è il risultato. Mediocre a tutti gli effetti, nel senso etimologico di “stare nel mezzo”, in cui poche sono state le pellicole a spiccare davvero, quest’ultima edizione ha tentato di cimentarsi in tematiche femministe, di raccontare storie di donne, su donne, per le donne, fallendo nel creare narrazioni nuove e nel riscattarle da un ruolo di completa subordinazione alla figura maschile.

Il tentativo c’è stato, anche vasto. Tante sono state le donne raccontate e portate in scena, nel ruolo di madri adolescenti (come in Stonewalling), madri omicide responsabili di aver ucciso la propria creatura (come nel pluripremiato Saint Omer), madri mancate (come in Les Fils des Autres), madri in lutto (come in Love Life e la Dernière Reine), madri in lotta per non perdere il proprio figlio (Banu), mogli sofferenti e devote (Un Couple), figlie disperate (The Eternal Daughter), donne intrappolate da un maschilismo tossico (la pellicola debolmente femminista di Olivia Wilde, Don’t worry baby), prostitute (Princess) e infine artiste della pellicola e della vita (il Leone d’Oro All the Beauty and the Bloodshed).

Tentativi, tuttavia, che non hanno brillato particolarmente, incapaci di rendere la donna vero personaggio, slegata dalla sua funzione di madre, moglie e compagna. Pellicole annacquate, in cui lo slogan femminista manca di una riflessione realmente acuta ed emancipata. Film che si ripetono, o ripetono altri già visti, storie sentite, carenti nel risvegliare il femmineo e le sue proprie potenzialità narrative.

Due soltanto, rispettivamente a inizio e conclusione del festival, sono le pellicole che, tra plausi e critiche, si sono imposte, per l’interpretazione magistrale di entrambe le attrici protagoniste (Cate Blanchett e Ana de Armas) e per la portata delle pellicole stesse. Due film al femminile, due storie di grandi donne da cui prendono il nome: Tar di Todd Field e Blonde di Andrew Dominik.

Ana de Armas in Blonde

Due semi biopic in cui realtà e finzione si mescolano tra fantasmi, ossessioni, paure represse, umiliazioni, fallimenti e malato narcisismo, che si rincorrono in una spirale sempre più autodistruttiva. Due icone, due simulacri sacri: Lydia Tar (Cate Blanchett), androgina e magnifica direttrice della filarmonica di Berlino, genio della musica e donna di potere, e Norma Jean, una Marilyn indifesa e sprovveduta in balia dei traumi della sua infanzia e di una società fallocentrica e maschilista in cui lei sarà sempre e solo “just some blonde”.

Vita e auto-rappresentazione, identità e icona, essere e apparire, successo e abbrutimento, sono i temi di entrambe le pellicole. In questo modo Venezia racconta la donna 2022. Può una donna raggiungere davvero il podio? Può una donna essere più potente di un uomo? A quale prezzo? La risposta è drammatica, come drammatica è l’urgenza di porsi ancor oggi una domanda simile.

Vi è una forma di fatalismo in entrambe, in quella sconfitta inevitabile, insita proprio nelle protagoniste, non confinata a qualche errore o tara ereditaria (per quanto l’infanzia rubata di Norma Jean la perseguiti fino alla fine), ma legata alla loro stessa nascita: sono nate donne. Questo basta. Successo e infelicità, decadenza e potere appaiono due volti della stessa medaglia nelle parabole discendenti di due donne ai vertici, talmente in alto che la caduta può essere solo disastrosa.  Donne completamente diverse, l’algida e calcolatrice Cate Blanchett, androgina e narcisista, che dispensa favori, forte del suo potere, per un tornaconto personale, una Marilyn ridotta a mero oggetto del desiderio, in un sistema feroce che vuole usare quel suo corpo, quel suo fascino, come macchina da soldi, da botteghino. Entrambe vittime, una di se stessa, di quell’alter ego volto a nascondere un’origine di povertà e miseria, e l’altra degli uomini, delle tante bocche che urlano il suo nome (nome d’arte), che la vogliono più casta, più sgualdrina, più sorridente, più rapace, più stupida persino.

Entrambi i registi, Andrew Dominik e Todd Field, raccontano il potere dello sguardo, quello degli altri, della società, perfino del mondo, sulle loro protagoniste. Perché quello che sembrano voler suggerire è che nello sguardo che gli altri ti rivolgono che risiede il vero potere, nel saper controllare l’immagine che si vuole restituire, ma, senza quel controllo, nulla rimane se non due bambine piangenti. Vite fittizie, inventate, identità confezionate e occhi che osservano, osservano sempre, venerano e giudicano, assolvono e condannano, in una pena eterna e inesorabile cui le donne da sempre son sottomesse. Se da un lato Lydia Tar si deve far uomo, annullarsi in un’identità celebrale, di fredda esaltazione dell’io, dall’altro Marilyn, non Norma Jean, deve essere sempre perfetta, disponibile, sorridente e anche un po’ stupida.

Ma manca in entrambe le pellicole l’umano: cosa sappiamo di queste due donne? Tutto e pressoché niente. In quasi tre ore ciascuna, rimane il rigore formale e monolitico di un’opera didascalica e verbosa e la regia sperimentale e nevrotica di un film volutamente conturbante e respingente. Entrambe mostrano amaramente come la donna non sia mai libera, di scegliere, cadere, sbagliare, nemmeno quando raggiunto il podio, condannando un sistema che le rende mere immagini: da simulacro a dea caduta, dimenticata, ignorata, allontanata, ma anche desiderata, esaltata, idealizzata.

Ma il tutto senza sentimento, senza coinvolgimento emotivo, senza intimismo, rendendole a loro volta oggetti di ricerca senz’anima. I traumi di Norma Jean si riducono ad allucinazioni schizofreniche, in parte dovute agli eccessi di alcool e droga, il desiderio di maternità a un feto parlante dalla vocina grottesca che la implora di non ucciderlo, il dolore per un padre sempre sognato e mai conosciuto a un eco di “daddy” ripetuti a tutti gli uomini di passaggio, la sua grande cultura e intelligenza all’uso del nome di Cechov con registi e produttori. Pur traendo ispirazione dal best seller profondamente intimista di Joyce Carol Oates, Dominik si spinge nell’estremo, nel volgare, atroce, brutale, necessariamente scioccante ma inutilmente arido (dall’aborto visto dall’interno di una vagina, le lacrime che scorrono mentre il produttore si approfitta di lei sul tappeto, alla fellatio a un Kennedy spietato che le tiene la testa senza nemmeno abbassare la cornetta del telefono), muovendosi dal bianco e nero al colore, dall’1:1 fino al 2,40:1 del cinemascope, in prevalere eccessivo di forma sulla materia narrata. É ridurre un’icona a icona senza renderla persona, senza redimerla, non concedendole nemmeno in quest’occasione la facoltà di parlare, di raccontarsi, se non, di nuovo, tramite una prospettiva puramente maschile, intrappolata com’è a essere personaggio creato dagli uomini per gli uomini.

Mentre Blonde è mera dissoluzione dell’io, nevrosi psichica, e abbrutimento, discesa nella percezione sempre più frustrata, alienata e dolorosa della protagonista, Tar è puro autocontrollo, un autocontrollo maniacale, quasi ossessivo, per cui tutto è predisposto, pianificato, in una psicosi volta alla perfezione dove non vi è margine d’errore, né per il regista, né per la sua protagonista che dirige vita pubblica e privata attraverso rituali e piccole manie. Di nuovo però abbiamo un animo inesplorato, Lydia Tar non sembra rendersi conto che lo sguardo degli altri su di lei sta cambiando: gioca d’azzardo, si fa audace, pensa che nessuno le porterà via quel potere a lungo agognato. Ma in lei non vi è traccia di rimorso, conflitto o dramma, solo stoica accettazione. Quali che siano le sue origini familiari, il desiderio di rivalsa da un’infanzia in gran parte infelice che l’ha spinta a fuggire, l’attaccamento alle sue giovani amanti, le motivazioni di una caccia senza fine, rimangono nell’ombra. Di nuovo, come in Blonde, non vediamo la persona, ma l’immagine, ripulita algida, superiore, androgina nel suo vestire i panni di un generale che dirige a suon di bacchetta.

Un bilancio negativo quello di questa 79 edizione: donne relegate in soffitta, pronte da rispolverare all’occorrenza per mero narcisismo maschile di registi compiaciuti e poco attenti all’umano.

Anna Chiari
@annachiari___