Il Benin è uno stato che si affaccia sul Golfo di Guinea. Per 450 anni ha fornito il maggior numero di schiavi, uomini e donne, agli Stati Uniti, ai proprietari di campi di cotone che volevano manodopera a basso costo, a signori e signore benestanti che volevano fregiarsi di avere uno schiavo o schiava in casa perché la servitù di colore dava uno status di un certo tipo.
Le donne vendute come schiave venivano rasate a zero per risultare meno seducenti e non indurre in tentazione il padrone o gli altri schiavi con cui condividevano case e giacigli. Ma pur private di ogni possibile anelito di libertà, fisica, psicologica, di pensiero o di parola, le donne del Benin trovarono ugualmente il modo di ribellarsi. Iniziarono a fasciare la testa in turbanti fatti con stoffe a colori e disegni vivaci. Il modo di annodare i turbanti divenne sempre più complesso, tanto da diventare una vera e propria arte. E a seconda dell’annodatura le donne riuscivano a inviare messaggi non scritti e non detti: chi era il padrone, da dove venivano, se avevano marito, se erano state vendute e così via. Messaggi, naturalmente, intelligibili sono alle persone di uguale provenienza, ma era proprio a loro, non certo ai padroni, che volevano rivolgersi.
Oggi tante donne africane continuano ad annodare turbanti bellissimi sulle loro teste. Io, dove vivo, ne vedo tan te e rimango sempre affascinata dalla loro grazia e portamento regale. E sapere che dietro ai loro turbanti c’è una storia di schiavitù, oppressione e ribellione intelligente me le fa vedere con occhi diversi. Per opporsi, per dire no, non serve urlare. A volte basta annodare un turbante.
Questa storia bellissima l’ho trovata su Slow News (a Cesare quel che è di Cesare), che da tempo racconta storie di giornalismo ‘lento’ e sussurrato, non gridato, ma approfondito e interessante.