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Il 18 maggio c’è stata a Roma nella sua sede storica, l’ippodromo delle Capannelle, la festa dell’ippica considerata la corsa per eccellenza, il Derby, quella che qualsiasi proprietario, allevatore, allenatore e fantino sogna di vincere almeno una volta nella vita.

Al Derby infatti possono gareggiare solo i purosangue di tre anni, dunque  si può partecipare – e vincere – una sola volta nella vita. Quel pomeriggio o mai più.

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Sono passati quasi 250 anni da quando Mr Stanley, dodicesimo conte di Derby, dopo aver vinto il lancio della moneta con Lord Bumbury, diede il suo nome alla prima edizione della corsa che fece disputare sulla distanza dei 2.400 metri ad Epsom, al centro dei suoi possedimenti, non lontano da Londra. Nulla potrà mai raggiungere l’atmosfera che soltanto  le corse più famose al mondo, le Royal Ascot Racecourse, rappresentano: non solo un importante evento istituzionale della tradizione inglese, ma anche un atteso appuntamento della stagione estiva,in cui poter sfoggiare esuberanti cappelli di ogni foggia.

Tuttavia, il Derby romano quest’anno ci ha provato davvero a fondere moda e ippica, grazie all’Accademia Koefia, che  per l’occasione ha fatto sfilare capi creati esclusivamente a mano dai suoi studenti del terzo anno, i quali hanno realizzato la collezione che si è esibita in tre sfilate che hanno inframezzato le corse: in questa occasione specialissima nell’invito era specificato il dress code,  con richiesta di indossare il cappello sul parterre dell’Ippodromo. Anche Permesola è stata invitata, e non si è certo fatta sfuggire l’occasione! (in completo petite robe bleu con giacca 7/8 e cloche in tinta )

Bisogna dire che il Derby ha realizzato davvero, nel pomeriggio di un sole finalmente estivo, un’atmosfera palpitante e coinvolgente per chiunque, addetto ai lavori o appassionato, e sono moltissimi: scommettitori, spettatori, curiosi. Due minuti appena che passano in apnea, con un  coinvolgimento forte anche per chi non ha puntato e  per chi a malapena distingue un cavallo da un altro, in una festa di colori e di luce, con la dirittura d’arrivo vissuta senza respirare fino al boato finale.

Le sfilate sono state belle e gli abiti davvero eleganti, dalle linee rarefatte, geometriche, minimaliste con qualche tocco, qua e là, di follia creativa: un grande fiocco di plastica trasparente, una cappa traforata come un griglia di merletto, spolverini e cappe realizzate con tagli simmetrici.

Eppure… nelle splendide e spettacolari terrazze solo per invitati, coperte da tendoni e con la moquette rossa; nei grandi saloni con vetrate aperte sulle piste, dove cibo, alcool e caffè erano a ciclo continuo, come la musica ritmata…  dopo “La grande bellezza”, il film di Sorrentino, è difficile liberarsi dall’idea di essere, anche in quest’occasione, “dentro” il film, ovvero di essere parte di un grande spettacolo, uno scenario grandioso in cui eleganza e volgarità, utilità e spreco, tenacia e indolenza, sacrificio e superfluo, tradizione e ignoranza vivono insieme abbracciati, come sempre davvero, nella capitale italiana.

Da ricordare una corsa al galoppo in particolare, quella delle amazzoni (premio Longines for lady riders); riservata solo a donne-fantino, scriccioli coloratissimi che hanno governato con braccia –  e gambe – d’acciaio purosangue particolarmente nervosi, e che sembravano volare nella vivacissima corsa.

Chi ha vinto? I nomi delle amazzoni sono tranquilli (Schlatter, l’amazzone – campionessa, seconda Mills e terza Moneta) ma i loro destrieri !  Indian Pacha, secondo Rottmayer (come la governante odiosa di Heidi?) e Never Say Never (evocativo quant’altri mai..!)