Con questo film il regista newyorkese torna a girare negli States, in una San Francisco luminosa e in una New York in continui flash-back sontuosa e luccicante, in aspro contrasto con la miseria, materiale e morale, raccontate nel film. La proiezione inizia con l’abituale bianco-nero e l’abituale sax jazz, ma poi si snoda, pian piano, in un racconto drammatico, che monta lentamente e ci fa assistere a una parabola inarrestabile, quella di Jasmine.
Jasmine arriva a San Francisco, insicura e nevrotica, una donna ricca e viziata che tutto ha perduto nel rovinoso fallimento del marito, miliardario generoso e truffatore, e viene accolta dalla sorellastra Ginger, povera, dall’esistenza precaria, con due bambini chiassosi e faticosi.
Il film racconta delle possibilità che le due donne avranno di cambiare la propria vita attraverso i sentimenti: ma mentre Ginger deciderà di tornare alla sua vita modesta ma sicura, con un fidanzato violento e volgare che la ama, Jasmine perderà tutto per la propria incapacità di adattarsi al presente, legata ad un passato che non smette di riemergere e a un immaginario (lo stesso per cui ha cambiato il suo nome da Janet in Jasmine) che si è cucito indosso come una seconda pelle.
Lo sfondo è quello della crisi della finanza e dell”ambiguità morale di una certa condotta di vita; la regia di Allen indica la leggerezza e saggezza di Ginger (Sally Hawkins) come la strada finale da percorrere per salvarsi, ma non nasconde la compassione verso la Jasmine di una straordinaria e vibrante Cate Blanchett, che con disperazione e leggerezza insieme mostra il suo sperdimento assoluto, e la sua vulnerabilità che la perderà per sempre.